sabato, Dicembre 7, 2024

Anything, Anywhere, Anytime, Professionally. Pilatus PC-6C/H2 “Air America” dal kit Roden in scala 1/48.

Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, ha visto il famoso blockbuster movie “Air America”. Alzi la mano chi, benché la pellicola sia piena dei soliti cliché hollywoodiani, è rimasto affascinato dalle riprese e dagli aerei immortalati; il tutto condito dal solito strepitoso Mel Gibson (attore che a me piace particolarmente) e da un giovanissimo Robert Downey Jr. lungi ancora dall’essere il famosissimo Iron Man della Marvel.

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Ovviamente il film romanza, e di tanto, la storia della compagnia civile con cui la CIA ha per anni operato sotto copertura nel sud est asiatico, e in particolare durante la guerra del Vietnam, fino alla cessazione delle sue attività avvenuta il 30 giugno del 1976. Alcuni elementi del film, però, rispecchiano abbastanza fedelmente la realtà della Air America, i cui velivoli operavano in zone remote del territorio vietnamita, della Thailandia, del Laos e della Cambogia decollando e atterrando su piste polverose, corte e quasi sempre molto pericolose. Le principali missioni erano di supporto ai rifugiati che venivano prelevati, spostati e reinsediati presso campi appositamente attrezzati.

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Ma l’impegno umanitario si esplicava anche con il trasporto di rifornimenti e beni di prima necessità a favore della popolazione che spesso viveva in zone montane o tagliate fuori dalla linea del fronte che si spostava continuamente. La Air America, all’apice della sua crescita nel 1970, disponeva della flotta di velivoli civili più vasta al mondo (il cui numero non era noto nemmeno alla CIA stessa) e poteva trasportare un volume di merci tale da sfamare 5.000 persone in un solo mese.

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Ovviamente, per la natura stessa della compagnia, non tutte le attività avevano scopi “benefici” e per distinguerle furono coniati dei codici specifici. Le operazioni segrete erano classificate come “black”, le sortite che prevedevano rifornimenti di armi ai combattenti hmong laoitiani, o filostatunitensi, “hard rice”. Il lancio di truppe in territorio nemico (chiamato in gergo “territorio indiano”) “infils” e la loro esfiltrazione “exfils”. Gli amici definiti “friendlies” e i nemici “bad guys” … persino l’agenzia governativa, da cui la Air America dipendeva, non veniva mai nominata direttamente ma chiamata “The customer” (il cliente).

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Il Pilatus PC-6 è stato il velivolo più impiegato e anche quello più amato dai piloti. Dalle buone capacità STOL e dalla facile manutenzione, fu il diretto successore dell’Helio Courier. Semplice da pilotare, era apprezzato soprattutto per la capacità di atterrare a basse velocità (50 nodi) e arrestarsi completamente in meno di 200 piedi grazie anche all’inversione di spinta dell’elica. L’unico lato negativo era la robustezza che, al contrario del Courier, non garantiva lo stesso tasso di sopravvivenza all’equipaggio in caso di inconvenienti di volo. I Porter utilizzati dall’Air America furono innumerevoli e di svariate versioni. I primi PC-6A erano ancora motorizzati con la turbina francese Turbomeca Astazou, ma molto più diffusi furono i PC-6C con la Garret TPE-331 di produzione americana.

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La Roden nel 2010 mise in commercio una serie di kit dedicati al Porter (inediti, nonostante la grande diffusione dell’aeroplano ancora oggi) e tra questi la scatola n°440 dedicata alla versione C/H-2 oggetto di quest’articolo. C’è da dire che lo stampo ha il 90% delle parti in comune per realizzare tutte le versioni proposte e le fusoliere presentano gli sportelli laterali di accesso all’abitacolo. E da qui è nata la “sfida” modellistica, perché spulciando le foto reperibile googlando (ottimo QUESTO SITO ad esempio), leggendo l’ottimo volume della Schiffer Military – Wings of Air America e chiedendo informazioni all’università di Dallas (dove ho scoperto è conservata la più grande e importante collezione di foto, memorabilia e documenti inerenti alla storia dell’Air America), mi sono reso conto che la variante “car door” è stata proprio quella meno diffusa durante il conflitto in Vietnam. Inoltre, confrontando le foto dei velivoli reali con il modello ho notato che la forma del parabrezza è tutt’altro che corretta (troppo piatta guardandolo di profilo). Questo errore, probabilmente, è da attribuire proprio alla Pilatus che sul proprio sito offre gratuitamente dei file .pdf con i piani di costruzione del velivolo per i modelli RC. È plausibile pensare che la ditta ucraina si sia fidata dei disegni senza rendersi conto che questi presentano delle (a mio avviso volute) semplificazioni e approssimazioni. Dal momento che l’errore, una volta individuato, è molto visibile e fastidioso (almeno per il sottoscritto) e dato che, da subito, ho deciso di modificarlo mi sono detto: perché non provare a trasformare il modello nella versione senza portiere?

Lavoro fattibile ma delicato, soprattutto perché avrebbe comportato la totale ristampa in vacuform del parabrezza. Quindi, deciso a scartare le versioni proposte dal kit (tutte dotate di portiere ovviamente), ho scandagliato la documentazione in cerca di un esemplare che facesse al caso mio. Alla fine, la scelta è ricaduta su questo:

Immagine inserita a scopo di discussione – fonte http://www.militaryimages.net/

Il N357F (Serial Number 2015) fu costruito nel 1967 e subito acquistato dalla Air America. Fu giudicato fuori uso a seguito di un atterraggio pesante sulla Landing Strip 135 nei pressi di Ban Vieng il 12 settembre 1972, mentre consegnava dei sacchi di riso. I due occupanti a bordo se la cavarono con ferite importanti, soprattutto il pilota. Probabilmente, però, il velivolo subì altri incidenti minori negli anni precedenti e fu ricostruito più volte anche usando parti di altri Porter. Lo si capisce da questa foto che lo ritrae in transito sull’aeroporto di Glasgow-Prestwick per la prima consegna nel 1967:

Immagine inserita a scopo di discussione – fonte www.dhc-2.com

La prima immagine lo ritrae nel febbraio del 1971 sulla Landing Stripe 322 e non presenta né le “car door”, né i portelloni cargo laterali a sinistra. Nella seconda, precedente come data, il velivolo ha le “car door” e il portellone di carico. Insomma, tanto per complicarmi ulteriormente la vita, ho scelto un soggetto alquanto particolare. L’ipotesi della ricostruzione parziale della cellula è avanzata anche dal sito PC-6.com che, inoltre, parla di uno scambio di contrassegni individuali col N392R operante nello stesso periodo. La presupposizione potrebbe essere realistica dal momento in cui la configurazione del 392R era praticamente la stessa del 357F.

Dopo questa iniziale fase di studio delle fonti ho iniziato ad escogitare un modo per modificare e convertire il modello, iniziando a progettare il nuovo profilo delle parti vetrate. Non esistono referenze ufficiali (almeno io non le ho trovate nonostante giorni di ricerche), per cui ho eseguito tutto a mano basandomi sulle foto che ritraessero dei Porter quanto più di profilo possibile:

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Dopo decine di aggiustamenti e piccole modifiche, ho dato “in pasto” i disegni al mio fidato plotter da taglio ricavando i pezzi per chiudere le portiere e allungare lateralmente il parabrezza:

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Ovviamente per fare posto ai nuovi ingombri ho dovuto eliminare i montanti laterali (in foto tratteggiati) già stampati.

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Poi, hanno avuto seguito gli step più complessi: il primo, quello di dare la giusta forma al windshield. Partendo da questa foto del pezzo originale Roden, si può notare come esso sia troppo piatto nel punto indicato dalla freccia:

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Quindi, come prima operazione, ne ho ricavato il profilo con un profilometro; poi gli ho modellato sopra la forma corretta ricavata dalle foto dei soggetti reali.

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Nell’immagine sopra vedete in verde la sagoma del kit, in rosso quella da me ottenuta.
Anche in questo caso, ho tagliato i pezzi in Plasticard col plotter e li ho incollati sul trasparente in modo da avere un riferimento e, allo stesso tempo, fungere da “costole” di rinforzo su cui far aggrappare il materiale di riempimento:

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Allo scopo ho utilizzato il Magic Sculpt, uno stucco bicomponente simile al Milliput ma più plastico e agevole da lavorare. Dopo averne atteso la completa asciugatura, ho asportato l’eccesso con varie lime e carta abrasiva ma, soprattutto, ho rimodellato il parabrezza con un occhio sempre rivolto alla documentazione.

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La forma non è facile né da interpretare, né da ricreare, perché nella parte centrale c’è un “bulbo” che si appiattisce sopra, vicino alle ali.

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Dopo aver rifinito e ricontrollato il tutto, ho spruzzato una generosa quantità di Mr.Surfacer 1500 che ha eliminato i graffi in superficie e mi ha permesso di affinare e correggere ulteriormente le forme. A seguito di un ultimo check, ho riempito il retro di Milliput preparando il master per la ristampa in resina (non volendo rischiare l’originale, ho preferito farne delle copie).

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E poi è arrivato il fatidico momento di realizzare il Vacuform. Mesi addietro avevo acquistato una macchina vacuformatrice su Amazon che sembrava perfetta per i nostri scopi. In realtà, anche a cause della complessità del parabrezza, le operazioni non sono state per nulla semplici e ho dovuto tarare con particolare attenzione i parametri del calore con cui scaldare la lastra di acetato. A seguito di numerosissime prove, e altrettanti numerosi tentativi falliti, ho ottenuto un vetrino con una trasparenza accettabile.

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Tutto il processo lo potete vedere in questo video tutorial:

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L’esemplare scelto non aveva ancora il portellone scorrevole caratteristico dei velivoli di produzione più tarda, bensì sul lato destro era dotato di due sportelli incernierati alla fusoliera con apertura a ribalta. Nella foto pubblicata all’inizio dell’articolo si intravede bene questo particolare sbirciando attraverso i finestrini di sinistra, ma chiedendo informazioni e conferme sul web e sui social sono riuscito a trovare anche un’immagine del lato opposto (grazie all’admin del sito PC-6.com) che ha confermato la configurazione.

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Per tale motivo ho dovuto eliminare le guide dello scorrevole già stampate sulla plastica:

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Le frecce in blu evidenziano delle piastre di rinforzo installate solo sui velivoli “car door”; su quelli sprovvisti tali rinforzi avevano forme e dimensioni diverse, pertanto li ho dovuti eliminare e ricostruire successivamente.

Altra particolarità era l’assenza del portellone per il vano di carico sul lato sinistro, caratteristica che non si riscontra in altri esemplari utilizzati dall’Air America fatta eccezione per il N392R e per quello oggetto di questo WIP, il N357F. Questo alimenta ancora di più il dubbio sulla possibilità che i due velivoli, dopo degli incivolo, fossero stati smembrati e le parti riutilizzate per assemblare una cellula efficiente. Per chiudere l’alloggiamento non è possibile, purtroppo, utilizzare il pezzo da scatola giacché la forma del portellone è comunque incompatibile; alla fine ho dovuto di nuovo rivolgermi al mio fidato plotter da taglio.

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La parte esterna, che comprende anche i due finestrini, è stata tagliata da un foglio di acetato trasparente da 0,4mm della Evergreen. In questo modo ho potuto ottenere direttamente, e a filo con la skin della carlinga, anche le parti vetrate. All’interno, invece, ho aggiunto due strati di Plasticard, sempre da 0,4 della Evergreen, per riempire lo spazio lasciato e portare il pezzo allo stesso spessore della cabina.

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Il vetro di sinistra fungeva anche da uscita d’emergenza per compensare la mancanza dell’apertura su quel fianco della fusoliera. Ho tracciato un’incisione sul perimetro per simulare la pannellatura lungo cui si separava. Il nuovo “inserto” è stato incollato con un filo di Tamiya Extra Thin Cement. A seguire, ho dovuto utilizzare molti strati di Mr. Surfacer 1000 steso ad aerografo per uniformare le superfici e pareggiare i dislivelli; ho curato particolarmente questa fase di stuccatura anche in previsione delle superfici metalliche da verniciare in quella zona.

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Contemporaneamente ho iniziato a lavorare anche al cockpit che, nonostante le migliorie, rimarrà quasi tutto nascosto alla vista. Parto da un presupposto: non esistono foto dell’abitacolo dei Pilatus usati in Vietnam. Gli unici esemplari compatibili come allestimento potrebbero essere quelli utilizzati dalla Swiss Air Force e su quelli, parzialmente, mi sono basato concedendomi delle piccole licenze. Lavorando nel compartimento, oltretutto, mi sono accorto che la Roden ha rappresentato piuttosto male le proporzioni della cabina in altezza.

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Col Magic Sculpt ho riprodotto il rivestimento ignifugo e fono assorbente. Con lo stesso materiale ho realizzato anche le tasche porta cartine/documenti. In Plasticard di riciclo, invece, la “colonnina” con la valvola del Fuel Shut Off posta a sinistra in corrispondenza del sedile del pilota.

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I sedili sono stati assottigliati a causa degli gli spessori esagerati della plastica. Li ho dovuti anche alzare di mezzo millimetro aggiungendo una fetta di Plasticard alla base, così come forniti dalla Roden sono troppo bassi rispetto al cruscotto. Sui lati ho aperto le asole in cui passano le cinture di sicurezza per le gambe (freccia in blu).

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Pedaliere e cloche sono state rifatte sia perché non corrette, sia per i problemi di spessori fuori scala già segnalati sopra. I pezzi sono un mix di Plastirod della Evergreen e profilati di ottone della Albion Alloy. Nelle foto mancano i pedali più piccoli che azionano il sistema frenante (solo sulla pedaliera del pilota) per cui ho utilizzato le fotoincisioni fornite dalla Eduard. La freccia in rosso evidenzia uno scambiatore che porta il calore della turbina al cockpit per il riscaldamento. L’ho rifatto con due pezzi di Plastirod quadrato, uno da 1mm e uno da 0,5mm, sovrapposti da cui escono due tubi (corrugati nella realtà) che convogliano aria a due bocchette fissate sotto al cruscotto.

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Il tubo l’ho rifatto con un cavo elettrico (arancione) che è abbastanza rigido, ma allo stesso tempo malleabile.

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Posteriormente ho ricostruito parte della struttura di sostegno dei seggiolini (freccia verde) col solito Plasticard e aggiunto altre due sacche porta documenti realizzate, ancora una volta, col Magic Sculpt. In rosso, invece, l’estintore ottenuto tornendo un tondino di alluminio. Le maniglie e il diffusore sono modellati da pezzi di Plastirod di scarto. Sempre con lo Sculpt ho realizzato anche i cuscini (in simil pelle sui Pilatus reali) dei sedili.

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Con tutti gli elementi modificati e rifiniti sono finalmente passato alla verniciatura degli interni, seppur con qualche dubbio circa l’effettiva fedeltà delle tinte. Per la zona di carico ho selezionato il grigio Gunze H-307, mentre per quella dei piloti l’XF-54 Tamiya.

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Per i cuscini ho usato il Military Green Vallejo; la finitura che gli ho dato è satinata, proprio per simulare l’effetto del materiale con cui erano rivestiti. Sono stati sottoposti ad in lavaggio pesante in nero ad olio e, successivamente, ad un dry brush altrettanto incisivo in Verde Vescica della Maimeri. Il contrasto l’ho volutamente esagerato perché una volta chiuse le fusoliere, e aggiunto il parabrezza, si vedrà ben poco dell’interno.

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Modellando delle sottili sfoglie di Magic Sculpt ho ricreato le cinture di sicurezza. Avevo a disposizione anche quelle fotoincise (da cui ho sezionato e riadattato solo le fibbie e i ganci) della Eduard ma non sono corrette per un PC-6C civile, bensì pensate per un AU-23 Peacemaker. Con il tipo di seggiolino fornito nel kit le cinghie erano ancorate al cielo della cabina (per quelle superiori del torso), e ai lati della struttura a cassone (per quelle delle gambe). La scelta di utilizzare lo Sculpt mi ha aiutato a dargli un aspetto più morbido e realistico. In tutte le foto che ho visionato dei PC-6 attuali le cinte erano blu, per questo ho ipotizzato lo fossero anche all’epoca; il colore da me è l’Xtracolor X-152 True Blue. Le pedaliere e la barra delle cloche sono in alluminio, la cornice dell’uscita d’emergenza sul finestrino laterale sinistro è in Flat Red Tamiya.

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Il cruscotto è di sicuro NON corretto per la mia versione, ma non avendo riferimenti certi (ed essendo quasi invisibile a modello ultimato) mi sono volentieri accontentato di quello in fotoincisione della Eduard. È pre-colorato ed auto adesivo e, stranamente, con un lavaggio in grigio medio riesce a copiare perfettamente il colore del resto dell’abitacolo. Nel vano di carico ho simulato un po’ di sporcizia mescolando velature di Olive Drab, Tan e grigio scuro, aggiungendo anche qualche graffio e qualche ombra ottenuta con le matite acquerellabili.

Il kit è un Roden della primissima ora, e di certo non presenta dettagli fini. Inoltre, alcune parti sono abbastanza errate come, ad esempio, il musetto che ha un’apertura della presa d’aria troppo larga e pronunciata. La Quickboost (codice 48333) lo fornisce in resina ma risulta più piccolo rispetto alla porzione di modello che deve sostituire. Per riportare le misure in squadro ho dovuto aggiungere circa 1,5 mm di Plasticard incollando due anelli tra il muso originale e l’aftermarket.

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La pannellatura marcata dalla freccia rossa non esiste sugli esemplari veri, per cui l’ho stuccata ed eliminata con la colla cianacrilica. In blu ho aggiunto un portellino di ispezione semi ovale.

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In verde, invece, è la nuova presa d’aria dello scambiatore di calore della turbina Garrett. Quella del kit è realizzata, ovviamente, in plastica piena ed ha una forma errata per cui ho preferito raschiarla via. Per ricrearla sono partito da un tubicino da 2mm della Evergreen che ho diviso in due parti ottenendo un semi cerchio. All’interno, dopo aver aperto lo scasso, ho simulato la paretina che divide il condotto di aspirazione dell’aria fredda da quello di espulsione dell’aria calda.

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Altra pannellatura mancante (e abbastanza complicata da reincidere) è quella del bordo della presa d’aria che incorpora il sistema antighiaccio (freccia blu).

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Sempre nella stessa zona ho aggiunto anche un portellino quadrato:

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Prima di chiudere le due semi-fusoliere ho realizzato anche una delle due ante di destra del vano di carico (l’altra ho voluto rappresentarla aperta e l’ho aggiunta solo alla fine dei lavori). Ho ricalcato lo stesso procedimento impiegato per chiudere il vano dal lato opposto, ovvero un sandwich di acetato e di Plasticard da 0,2 mm tagliati e sagomati al plotter. Il foro che vedete è la predisposizione per la maniglia di apertura.

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Le semi fusoliere combaciano abbastanza bene e non creano difficoltà nella fase d’incollaggio; lo stesso non si può dire delle pannellature che sono completamente disallineate tra destra e sinistra.

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Ho dovuto chiudere quelle di un lato, usando la cianacrilica come stucco, e procedere alla loro completa re incisione. L’operazione si è resa ancor più complessa a causa dello stirene morbido e cedevole utilizzato per la stampa del modello.

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Capitolo ali: la Roden le fornisce tutte identiche nei vari kit che ha commercializzato, e queste rispecchiano le configurazioni dei velivoli più recenti con doppio faro di atterraggio posizionati più esternamente, verso le tip. Questa rappresentazione non è corretta per i PC-6C che avevano un solo faro (basculante) posizionato sotto la semi ala sinistra, in prossimità del braccio di controventatura.

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Ho, quindi, chiuso gli alloggiamenti non utilizzabili e ho aperto lo scasso nel punto più corretto:

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Al suo interno ho infilato una bacchetta di Plexiglass col retro sagomato in modo da simulare la parabola; la lampadina l’ho ottenuta forando il trasparente e colando all’interno del nero della Vallejo, la parte riflettente è in Cromo della Molotow.

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Lungo tutto il bordo d’uscita, su entrambe le semi-ali, corre un brutto ritiro della plastica che ho riempito e pareggiato con cura.

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Un’altra modifica che ho dovuto affrontare riguarda queste due “alette” poste sul dorso di ogni ala:

Immagine inserita a scopo di discussione – fonte http://modeltalking.hobbyart.sk/

Altro non sono che dei semplici correntini che evitano ad eventuali perdite di carburante dai serbatoi (installati proprio in corrispondenza) di colare sui cardini e sugli attuatori dei flap. Come potete vedere si tratta di un lamierino sottilissimo sul vero; sul kit, invece, è rappresentato da un pezzo di plastica troppo spesso.

Anche in questo caso ho eliminato il dettaglio e ho iniziato la sua ricostruzione:

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Sullo stesso punto dov’era stampato ho scavato la plastica, passandola da parte a parte, con il cesello della GSI Creos.

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Così facendo ho ottenuto uno scasso (che ha assicurato un incollaggio più saldo e duraturo) dove inserire una sottile strisciolina di lamina di rame.

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A proposito dei serbatoi, ho rifatto il tappo (freccia rossa) e aperto il foro per la cannetta di sfiato della sovrappressione carburante (freccia verde).

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Sempre sulla semi-ala sinistra trovava posto l’alloggiamento dell’avvisatore di stallo. A modello ultimato ho poi aggiunto anche la “paletta” che ruotando dava l’impulso alla sirena nel cockpit.

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Dopo vari ripensamenti e prove a secco ho deciso di scartare del tutto gli attuatori dei flap e degli alettoni proposti dalla Roden che, oltre ad avere degli spessori esagerati, non rispettano a pieno le forme di quelli reali e non permettono agli ipersostentatori di estendersi (benché siano già separati dal resto delle superfici).

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Ho iniziato la modifica chiudendo gli alloggiamenti con delle sezioni di Plastirod tondo e stuccando le fessure con la cianacrilica:

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In previsione di incollare i nuovi attuatori autocostruiti, ho realizzato degli scassi nella plastica con il solito cesello sfruttando lo stesso metodo descritto sopra per i correntini sul dorso delle ali.

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Prendendo le misure delle parti Roden, e aggiustando le forme sulla base delle foto dei velivoli reali, li ho tagliati su Plasticard da 0,2mm utilizzando il mio fidato plotter:

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Archiviate le ali, le mie attenzioni sono di nuovo tornate sulla fusoliera. Controllando la documentazione in mio possesso mi sono accorto della presenza di una non meglio precisata apertura sul muso che è quasi sempre nascosta dal nero del pannello anti riflesso. Nonostante ulteriori ricerche e studio degli schemi della turbina Garret per capirne la funzione, a tutt’oggi non ho assolutamente capito a cosa servisse di preciso. Quindi, improvvisando qualcosa giusto per non lasciare un “buco nero” (è proprio il caso di dirlo), ho aperto uno foro con una punta elicoidale al cui interno ho infilato un condotto fatto con un tubicino della Evergreen diametro da 3mm.

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Più indietro ho aggiunto un air scoop disegnato, anche questo, al plotter.

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Sempre in accordo con le foto dei soggetti veri, ho tagliato e applicato le piastre di rinforzo citate qualche riga sopra. Attenzione: non tutti gli esemplari le avevano ma quelli utilizzati dalla Air America ne erano quasi tutti provvisti. Per agevolarmi nel compito ho scelto l’alluminio adesivo che è facile da applicare e si può assottigliare ulteriormente carteggiandolo.

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Come la propone il kit, la parte inferiore del muso è assolutamente spoglia e mancante di troppi elementi. In particolare, altri due air scoop (“plotterati” assieme a quello più piccolo incollato sopra), molte incisioni e un pannello circolare vicino la presa d’aria.

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Il piano di coda si incastra bene sulla fusoliera, ciò che non torna è quel gradino che la Roden ha rappresentato più avanti. Nella realtà le superfici sono tutte raccordate, esiste solo un piccolo dislivello dovuto alla sovrapposizione dei rivestimenti metallici del velivolo:

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Ho preferito non usare il Milliput o lo Sculpt per riempire il dislivello, bensì ho “foderato” la fusoliera con un pezzo di Plasticard della Evergreen da 0,2 mm. Per dargli la forma tondeggiante l’ho scaldato e vacuformato attorno ad una dima che ho ricavato da un pezzo di legno (la forma precisa non era fondamentale). Dopo averlo incollato con abbondante cianacrilica, ho carteggiato e rifinito con un po’ di stucco.

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Sui piani di coda e sulla deriva ho sistemato alcuni particolari:

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Freccia blu: ho aggiunto una piccola guaina che protegge lo scorrimento del tirante degli elevoni. Anche in questo caso ho utilizzato il nastro alluminio adesivo.

Freccia arancione: ho montato anche le paratie anti-scorrimento alle tip. Sono quelle da scatola ma assottigliate fino alla trasparenza.

Sotto alla deriva ci sono due piastre di copertura che ho prelevato dal set di fotoincisioni della Eduard.

Rimanendo nella stessa zona, la struttura su cui si imbullona il ruotino di coda è troppo corta e falsa la geometria dello stelo dell’ammortizzatore. Pe questo motivo ho dovuto allungarla aggiungendo due pezzi di Plasticard sagomati a dovere. Ho anche praticato due fori in cui passa il longherone di fissaggio che blocca lo stelo in posizione senza ricorrere alla colla:

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A propositi di steli ed ammortizzatori, neanche a dirlo quelli del carrello principale non sono assolutamente all’altezza e anche poco corretti in forme e dimensioni. Gli esemplari utilizzati in Vietnam, infatti, non avevano la cuffia di gomma per evitare infiltrazioni di polvere e detriti mentre la Roden ha rappresentato un ammortizzatore di tipo più “late” non compatibile con quello specifico periodo di impiego. Che fare quindi? ho buttato via tutti i pezzi originali e li ho torniti in ottone:

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Stelo

Ruote e struttura del carrello posteriore sono quasi del tutto inutilizzabili ma, per fortuna, esiste un set in resina dedicato della Wolf3dresinparts.at che sostituisce in toto i pezzi della Roden. La qualità della stampa 3D è eccellente:

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A questo punto ho iniziato l’assemblaggio principale del Pilatus. I punti di fissaggio delle ali sono ridotti al minimo e la loro lunghezza fa sì che si scarichi molto peso sulla fusoliera. Aggiungo che, come già detto in precedenza, la plastica Roden è davvero troppo morbida e questo non favorisce di certo la stabilità dell’unione.

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Le alternative per rinforzare l’incollaggio sono poche; al massimo si potrebbero inserire dei longheroni (fatti con tondino di ottone) passanti all’interno della cabina, ma si vedrebbero dall’esterno. Per questo raccomando di maneggiare il modello con attenzione per evitare di sentire dei terrificanti scricchiolii provenire dall’abitacolo e dal cassone alare…!

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Infine, sotto alle ali ho aggiunto delle piastre che chiudono e tengono in posizione i tanti pannellini d’ispezione e di accesso ai serbatoi di carburante. La maggior parte di questi è riprodotto come un’incisione dalla Roden, altri sono mancanti. Oltre ad avere una profondità e larghezza esagerati, tecnicamente sono anche errati perché sui velivoli reali quelle piastre sono in rilievo. Utilizzando il solito nastro alluminio plotterato ho disegnato i nuovi pezzi, chiudendo le brutte incisioni e aumentato il dettaglio generale.

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Un’altra particolarità dei PC-6 Air America era una piccola paratia sagomata che schermava il faro d’atterraggio ed evitava che i piloti venissero abbagliati dalla luce. Si nota bene in questa foto, anche se non del mio esemplare, sotto la semi ala sinistra:

Immagine inserita a scopo di discussione – fonte pc-6.com

Con lo stesso metodo usato per gli attuatori, ho ricavato lo scasso sotto l’ala. Poi, ho modellato un pezzo di lastra di rame sottile per ottenere il particolare.

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Sotto al muso ho predisposto i fori dove, a modello praticamente ultimato, ho inserito le varie cannette di spurgo del carburante e dell’olio motore.

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L’operazione più critica di tutta la fase di costruzione è stata, senza dubbio, quella relativa al montaggio del parabrezza. Ovviamente il pezzo realizzato in vacuform non poteva essere preciso al decimo di millimetro e per incollarlo ho dovuto utilizzare un materiale che fornisse un po’ di “struttura”; di fatto non ho potuto usare altro che la cianacrilica. Già sapevo che la cabina chiusa del Pilatus non avrebbe permesso ai vapori della colla di disperdersi, per cui già mi aspettavo già qualche alone sulla superficie interna del trasparente… che prontamente si è presentato. Per fortuna il portellone aperto sul fianco mio ha permesso di infilarmi nel cockpit con uno stuzzicadenti e un po’ di ovatta imbevuta della provvidenziale Tamiya Modelling Wax, eliminando quasi del tutto i segni.

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La guarnizione che corre lungo tutti i bordi l’ho ricavata dal nastro Kabuki (tagliato anche questo al plotter) sfruttando i disegni che avevo realizzato per il master del vacuform. È stata, oltretutto, utilissima per chiudere le fessure e rifinire il pezzo. A volte le “complicazioni” diventano un valido aiuto per risolvere la situazione. Il frame centrale è in nastro di alluminio adesivo, così come la piastra superiore rivettata.

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Finite le operazioni di incollaggio, carteggiatura e rifinitura del windshield, ho potuto aggiungere altri dettagli come il rinforzo evidenziato dalla freccia azzurra (una per lato) e due piccole prese d’aria per il raffreddamento dell’abitacolo che ho realizzato con del lamierino di rame.

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Lo scarico del kit è stato sostituito con l’accessorio della Quickboost in resina (codice 48335). Il set, da subito, mi ha lasciato qualche dubbio sull’andamento del tubo stesso (troppo staccato dalla fusoliera) e per la sua lunghezza. Alla prima imprecisione non ho voluto porre rimedio, per la seconda ho deciso di eliminare tutta la porzione evidenziata nelle foto e sostituirla con un tondino di ottone tornito e scavato al suo interno. Questo mi ha permesso di avere degli spessori più in scala e di dargli maggiore profondità (il pezzo in resina era pieno per tre quarti e si sarebbe notato a modello finito). Inoltre, dopo l’intervento, l’exhaust ha assunto delle dimensioni più coerenti (a conti fatti il pezzo in resina è più lungo di 1,5 mm).

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Ho anche completato il tubo con i collari di rinforzo (solito nastro alluminio) e la saldatura che ho riprodotto con lo sprue stirato a caldo.

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Le antenne di cui era dotato il mio Pilatus meriterebbero un capitolo a parte e, di fatto, ho impiegato parecchi giorni nel cercare di capire la corretta dotazione di apparecchiature installate. La flotta dei PC-6 utilizzati dall’Air America era un ammasso eterogeneo di aeroplani configurati in modo totalmente non standardizzato. Il mio PC-6, a quanto pare, era uno dei più strumentati a livello di sistemi di comunicazione e navigazione ma le foto sono poche e, soprattutto, quasi tutte con inquadrature laterali che non permettono di capire l’esatta collocazione dei dispositivi fugando i dubbi (infatti parecchi me ne sono rimasti).

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Ad ogni modo, “triangolando” le immagini e ricavandone l’ubicazione incrociando varie fonti (tra cui i manuali di volo), sono arrivato a predisporre i fori sulla fusoliera come evidenziato in foto:

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VOR/NAV: è un mix di pezzi da scatola (elemento a “boomerang” assottigliato e ri-profilato) e realizzati al plotter (base).

COM: stelo originale Roden assottigliato con l’aggiunta del terminale a frusta realizzato in filo di rame elettrico.

VHF/FM: basetta autocostruita partendo da due profilati quadrati della Evergreen incollati l’uno sopra l’altro e modellati con limette da unghie. La frusta è una sezione di corda da chitarra.

ADF LOOP 1 e 2: alcuni PC-6 Air America erano equipaggiati con ben due ADF (Automatic Direction Finder). Il sistema di navigazione era composto da due (tre in questo caso) elementi: l’antenna LOOP era quella deputata a ricevere il segnale dalla stazione a terra, associata ad essa vi era la SENSE ANTENNA (antenna di senso) che serviva al sistema di navigazione a capire il “senso” da cui proveniva il segnale (quindi verso cui orientare la prua); normalmente era un’antenna a filo. I nuovi ADF racchiudono tutte le funzioni in un unico elemento (di solito posto sotto la fusoliera sugli aeroplani moderni), ma fino agli ’80 inoltrati il sistema era così costituito. Le antenne LOOP le ho dovute ricostruire ricavando le misure dalle poche foto a disposizione. Sono partito da fogli di Plasticard incollati sovrapposti e sagomati con la lima; il master l’ho poi stampato in resina per ottenere due copie identiche.

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VHF NAVCOM: il filo è una corda di chitarra (MI cantino) piegato attorno ad un chiodo piantato su una tavoletta di legno, la base è un pezzo di ago da insulina.

Strobe Light: è una delle due (l’altra è installata inferiormente sotto la cabina) e l’ho ottenuta tornendo un tondino di ottone.

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Altri particolari completamente autocostruiti sono i contrappesi degli alettoni. Quelli forniti da kit non sono corretti (del tipo a tubo, utilizzati più raramente e sugli esemplari militari) e non possono essere utilizzati. Il peso a goccia l’ho ottenuto partendo da un profilato tondo della Evergreen da 1,5 mm.

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E per finire, sui braccetti del carello principale ho aggiunto le linee idrauliche dei freni.

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Non sono solito utilizzare il primer sui miei modelli ma, anche a causa degli estesi interventi di conversione, questa volta ho preferito stendere sul Pilatus quattro abbondanti mani di Mr.Surfacer White 1000 della Mr.Hobby. Questo ha anche ridotto sensibilmente la rugosità delle superfici, tipico difetto di stampa dei kit Roden (soprattutto di quelli prodotti agli albori nei primi anni).

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Il Surfacer, inoltre, ha preparato il fondo per la posa dei rivetti adesivi della Archer. Il PC-6 ne è letteralmente tempestato e questi sono molto visibili anche osservando il velivolo da svariati metri; partendo anche dal presupposto che il modello, come già segnalato, è molto povero di dettagli l’aggiunta dei “positive rivets” ha contribuito a renderlo più realistico e meno “giocattolo”.

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In totale ho utilizzato circa 70 cm lineari di rivetti, divisi in striscioline e applicati con attenzione lungo delle linee guida precedentemente tracciate a matita facendo riferimento alla documentazione. Ricordo ai lettori che questi prodotti hanno lo stesso principio di funzionamento delle decalcomanie e per garantirne la corretta adesività non possono essere trasferiti sulla plastica nuda (da qui l’utilizzo propedeutico del Surfacer) e devono essere abbondantemente spennellati col Mr.Mark Softer della Mr.Hobby.

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Altre due mani di Surfacer White hanno completato il primo step della verniciatura. A seguire ho iniziato la lunga e tediosa fase di mascheratura per applicare i tipici colori della Air America. Ottenere la sottile linea bianca che divide il blu dal natural metal mi ha fatto sudare le proverbiali sette camicie e non è stato per nulla facile anche perché alcune fine di rivetti passano proprio sotto al nastro limitandone l’adesione. Onde evitare quanto più possibile le infiltrazioni di vernice sotto alle maschere sono ricorso alla tecnica mutuata dall’automotive, ovvero spruzzare del trasparente lucido molto diluito lungo il nastro prima di applicare i colori definitivi. In questo modo si sigilla ulteriormente il bordo e le linee risultano più nette. Per ottenere il caratteristico blu ho speso molto tempo on line nel tentativo di “decifrare” la tinta esatta, ma ho capito che tuttora vige la totale confusione sull’argomento. Però molti modellisti, soprattutto statunitensi, concordano che la società civile sotto copertura della CIA potesse utilizzare il blu FS 15044 per i propri velivoli. Avendo l’H325 Gunze in casa (che corrisponde proprio a quella referenza), ho fatto subito una prova su un pezzo cavia per capire l’effettiva corrispondenza. Purtroppo, da boccetta è veramente troppo chiaro e alla fine ho dovuto aggiungere qualche goccia di nero per farlo risultare quanto più simile alla tonalità molto scura che si vede in tutte le foto dei Pilatus utilizzati in Vietnam. Il mix esatto lo trovate riportato nella foto sotto:

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Dell’esemplare che ho scelto non esistono decalcomanie e, per ovviare, ho disegnato le marche civili ricavandone delle mascherine da tagliare al plotter.

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Guardando bene l’immagine del mio Pilatus ho notato che le marche originali di tipo più piccolo furono cancellate e successivamente rifatte con altre di dimensioni maggiori. Sul Dural si intravede la traccia dei caratteri precedenti e per questo ho deciso di riprodurli nel medesimo modo.

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Quindi, dapprima ho verniciato i codici di dimensioni ridotte usando il White LP2 della Tamiya che ha un pigmento molto sottile. Ho steso due mani estremamente diluite e con passate molto veloci.

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Poi ho applicato le seconde maschere maggiorate su cui ho spruzzato il nero opaco Tamiya diluito al 70% con la nitro.

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Per i lavaggi, eseguiti sul modello lucidato con quattro mani di GX-100 Gunze, ho scelto un grigio chiaro per le zone in bianco e un grigio neutro (tutti ad olio) per quelle metalliche. Sul blu scuro e sul nero non ho eseguito alcun washing. Non ho assolutamente voluto calcare la mano per due motivi: i Pilatus reali, nonostante l’utilizzo severo che l’Air America ne faceva, erano ben tenuti; oltre a questo, le pannellature della Roden sono molto profonde per cui un tono anche di poco più scuro le avrebbe messe troppo in risalto.

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Dopo aver lucidato ulteriormente le sole zone interessate, ho applicato le decalcomanie (quattro in totale) provenienti dal foglio 48034 della Mike Grant Decals. La loro qualità è buona, la stampa precisa ma lo spessore del film è abbastanza importante e ho dovuto livellarlo con parecchi strati di trasparente nel tentativo di eliminarlo del tutto.

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Per la finitura finale ho scelto tre diversi trasparenti: sul bianco e sul blu ho optato per il Semi Matte MRP 126. Sul metallo il Semi Gloss MRP 125, mentre sul nero dell’anti riflesso il Flat Alclad ALC-314.

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Sui PC-6 sprovvisti di “car door” era presente un oblò che garantiva ulteriore ventilazione a tutta la cabina. In parecchie foto che ho trovato si nota come questo fosse quasi sempre aperto, anche in volo. Credo che in Vietnam facesse molto caldo…! L’aspetto interessante, a livello costruttivo, è che il finestrino era praticamente tagliato nel plexiglass del parabrezza e non presentava telaietti o strutture, semplicemente lo tenevano in posizione tre chiavistelli. Non potendo incidere l’acetato in vacuform, ho optato per “simularne” il contorno spruzzando del trasparente opaco direttamente sulla superficie mascherata.

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Il montaggio finale ha previsto l’aggiunta dei fili del sistema IFF e ADF (realizzati con il filo elastico della Uschi Van Der Rosten – gli isolatori sono due sezione di ago da insulina), delle luci di navigazione/posizione (quest’ultime, sulle tip delle ali, prelevate dai set dedicati della CMK in resina colorata trasparente), dell’elica Quickboost (codice 48334) che sostituisce quella originale di fattura alquanto discutibile e di altri piccoli particolari tra cui il predellino di accesso al vano di carico (totalmente ricostruito), e alla tiranteria degli alettoni, elevoni e relativi trim.

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Concludendo, come avete potuto capire leggendo questo lungo articolo il kit di partenza su cui ho basato l’intero progetto non è di certo rilassante. Molti pezzi sono grossolani, altri completamente sbagliati in forme e dimensioni, eppure lavorandoci duramente si riesce a tirarne fuori un modello che si lascia guardare. Di sicuro è un soggetto fuori dalle corde della maggior parte dei modellisti e, proprio per questo, non credo vedremo un nuovo kit allo stato dell’arte nei prossimi anni (anzi, oserei dire decenni). In definitiva, per certi velivoli bisogna accontentarsi di ciò che passa il mercato.

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A molti il PC-6 potrà non piacere e, in effetti, a livello estetico può anche risultare molto poco accattivante. Ma, personalmente, questo genere di velivoli mi ha sempre affascinato… l’Helio Courier, il Britten Norman Islander, il De Havilland Twin Otter… tutti aerei STOL che, proprio per le loro capacità e architetture spartane, mi hanno sempre trasmesso un certo senso di meraviglia.

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Se rinasco, giuro, vado a fare il Bush Pilot in Alaska… o sulle montagne della Papua Nuova Guinea!

Buon modellismo a tutti!

Valerio – Starfighter84 – D’Amadio.

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